Al bar di Antonio Belziti, l'uomo serio che inventava storielle a raffica

                                                                   Antonio Belziti 


Nel Corso Garibaldi, all’angolo con via Milazzo, al n. 52, c’era una volta il bar di Antonio Belziti (1923-1988), il locale più antico della strada. Era stato aperto nel 1955 dallo stesso Belziti insieme con lo zio Luigi Albanese. Dopo qualche tempo però i due si divisero, e Albanese ne aprì uno tutto suo, a un centinaio di metri di distanza


Antonio era un signore elegante che avrebbe fatto la sua figura come indossatore di abiti alla moda, il suo era un piccolo locale, con il bancone alto, alcuni tavolini all’interno, poche sedie all’esterno. Luogo di ritrovo affollato soprattutto a fine giornata per quanti volevano bere qualcosa in compagnia, fare una partita a carte, tirando fino a sera.

Quel locale in realtà aveva tre vite distinte: quella mattutina, quando la saracinesca veniva tirata su alle 4 da Immacolata Giordano, suocera di Antonio. Donna energica, sempre al lavoro, Immacolata intercettava a quell’ora buia le frotte di cacciatori diretti verso la montagna. 


Durante i periodi stagionali di caccia, che a quel tempo erano più ampi di quelli attuali, e annoveravano assai più appassionati di oggi, ogni mattina decine di cacciatori si fermavano al bar di Belziti per fare colazione. A quell’ora difficilmente avrebbero trovato un altro locale aperto in tutta la zona. Comitive di cacciatori arrivavano perfino da Reggio Calabria, Gioia e Palmi; andavano a prendere il posto per la passa degli animali molto presto, ma prima facevano tappa da Immacolata per il caffè. Quasi un rito, andato avanti per anni e anni.

La seconda vita del bar era quella diurna. Al bancone subentrava Antonio, spesso aiutato dalla moglie Mimma e dalla cognata Sarina. Belziti era un uomo dai modi molto garbati, amava quel lavoro e lo svolgeva con delicatezza e passione, anche quando si trovava di fronte qualche cliente diciamo così troppo esuberante per non dire maleducato. Lui trovava sempre il modo di comporre le cose, utilizzava la sua infinita pazienza e il suo fine umorismo come un medicinale efficace tutte le volte che nel bar c’era qualche avventore agitato, ma ne soffriva, perché lui era un cultore della vita tranquilla, delle relazioni serene, del sorriso e della gentilezza. Ma il suo lavoro ogni tanto gli metteva davanti l’altra faccia della medaglia. 


La terza vita del bar cominciava a sera, quando la saracinesca veniva tirata giù per il pubblico normale, ma le luci restavano accese perché Antonio, con la complicità di Mimma alla cucina, periodicamente ospitava amici e clienti affezionati per le cosiddette ‘schiticchiate’. Non erano cene, ma nemmeno aperitivi, diciamo una via di mezzo abbondante. Erano soprattutto un modo per trascorrere qualche ora serale in compagnia e soprattutto in allegria, con un buon piatto, qualche bicchiere di vino e tante storielle di paese che ciascuno raccontava più o meno a turno. 


Il titolare del bar, dietro il suo sguardo a volte serioso, celava un animo giocherellone e un sottile gusto per lo spettacolo e il teatro. Uscivano dalla sua fantasia le periodiche stornellate dialettali che facevano il giro del paese, sfottendo ora questo ora quell’altro personaggio. La maggior parte di queste ‘poesie’ le inventava sul momento, spesso in occasione dei brindisi, gli veniva la rima facile e così pure la sottolineatura di un difetto del personaggio preso di mira. 


Nei periodi elettorali o nelle vicinanze del carnevale, Antonio scatenava la sua creatività producendo a raffica versi in rima più o meno lunghi e pungenti, faceva ridere tuttavia senza offendere. Le ‘schiticchiate’ nelle quali Belziti radunava sette o otto persone per volta, adulti e giovanotti, erano talvolta la degna conclusione di una giornata lavorativa, che era saggio voler concludere in serena allegria. Quando c’erano le partite di calcio in tv, o per la domenica sportiva, il bar era affollato e diventava una specie di servizio pubblico, visto che la maggior parte dei cinquefrondesi a quel tempo non aveva la tv in casa. 


Ma al bar di Belziti non fu sempre rose e fiori, perché in quel locale una volta si consumò anche un terribile fatto di cronaca. Era la sera del 2 ottobre 1968, la vittima si chiamava Silvio Petullà. Cadde sotto i colpi di pistola di Fortunato Furiglio. Una vicenda triste e dolorosa che distrusse due vite e due famiglie di compaesani. Storia dimenticata, è passato più di mezzo secolo, ma all’epoca fu uno shock per tutti. Antonio ne rimase a lungo impressionato. Quell’episodio segnò profondamente la sua vita di uomo mite. 


Come nel caso del farmacista Misiti, anche la famiglia Belziti ha pagato un prezzo carissimo alla violenza della ‘ndrangheta. Un fratello del barista infatti, l’avv. Michele, che per lunghi anni aveva lavorato al nord, fu vittima di un cruento sequestro a scopo di estorsione.

Il locale è stato chiuso dopo la morte del fondatore e titolare avvenuta nel 1988, e con entrambi se n'è andato un piccolo pezzo di storia cinquefrondese.

(estratto dal libro 'Lessico dell'anima', di Francesco Gerace, 2020; foto Archivio Storico Tropeano, Archivio Gerace)

 


                                                            

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