A san Michele i fidanzatini uscivano allo scoperto, e poi c'erano i ferari, l'autoscontro e ....

Ci sono tanti modi per raccontare la festa di san Michele che si tiene a Cinquefrondi. Ho chiesto al giovane scrittore, e nostro concittadino, Salvatore Tigani di farlo a modo suo, con quello stile allegro leggero e scanzonato che gli è proprio, mescolando ricordi personali, vicende familiari e altre testimonianze raccolte qua e là. 

Le fotografie che accompagnano questo scritto sono di Marcello Roselli, Rino Macedonio e mie.


 di Salvatore Tigani

Quando zia Maria ha saputo che il vescovo ha riattivato le feste di paese e le processioni è andata in brodo di giuggiole. “Finalmente!”, ha esclamato, e ha preso due euro dal portamonete per metterle in una ciotolina di vetro vicino alla tv. Le ho chiesto cosa significasse quel gesto e lei mi ha risposto che sta solo cominciando a mettere i soldi da parte per comprarsi una sedia. “Ma ne hai tante!”. “Eh, lo so, ma la nonna ha sempre fatto così e quindi è tradizione”. 


Ho provato a calcolare mentalmente quanti anni di fiera ha potuto vivere mia nonna, buonanima, e avendo coscienza di tutte le sedie presenti in casa ho visto che i conti, come si dice, non tornavano.

Però, nel ripensare a mia nonna, mi sono ricordato di una volta, avrò avuto cinque anni, in cui mi ha condotto per mano lungo tutto il corso Garibaldi chiedendo a questo e a quel “feraro” quanto gliela faceva, la sedia grande per il tavolo della cucina, la sedia piccola per sbucciare i piselli e le fave vicino al braciere o lo sgabellino su cui mettere i piedi quando rattoppava un pantalone sciancato con ago e filo.  


E mi sono pure ricordato che, il più delle volte, invece di comprare una sedia compravamo un paniere intrecciato oppure una ciotola di terracotta per cucinare la “suriaca scorciuliata” direttamente sulla brace ardente o finanche un battipanni lungo un metro per percuotere i tappeti appesi al balcone per liberarli dalla polvere accumulata. 


Zia Maria, tra l’altro, è golosa di dolci; quindi, immagino spenderà una parte di quegli spiccioli in mandorle tostate o caramelle colorate un tanto al chilo.

Personalmente, non partecipo alla Festa di San Michele da almeno dieci anni. Dell’ultima volta ho un ricordo più nitido forse perché l’ineluttabile Marcello Roselli mi ha beccato con la fidanzatina di allora appena sotto le scale della Matrice e mi ha fatto una foto per immortalare il momento. Qualcuno, ora che ci penso, mi ha detto che quel giorno da fidanzatini eravamo diventati fidanzati ufficiali. Chiedo a Zia Maria, che conferma: “Tutti i maschi che si fidanzano fanno la prima passeggiata ufficiale durante la fiera di San Michele, è tradizione!”. Pure questa. 


E allora chiedo ai miei genitori, più per farmi i fatti loro che per avere ulteriore conferma, e viene fuori che loro, addirittura, si sono fatti la prima passeggiata da soli il giorno di San Michele di tantissimo tempo fa. Avevano una amica in comune che, stufa di sorbirsi quei continui e sempre uguali scambi di sguardi a distanza, li prese sotto braccio e li avvicinò dicendogli: “E mo’ basta! Prendetevi per mano e andate a farvi un giro sui dischi volanti”. 


Qua devo aprire una parentesi, perché c’è una storia nella storia, altrettanto divertente. Il mio papà e la mia mamma sono nati lo stesso giorno, anche se a un anno di distanza. Mio padre aveva già usato quella scusa per attaccare bottone, la prima volta, qualche mese prima. Le si era avvicinato, capelli lunghi, pantaloni a zampa e baffetto incolto, e le aveva detto: “Sai, io e te siamo nati lo stesso giorno”. “E mo’ che vuoi?”, le aveva risposto mia madre, che aveva un anno in più e, a quei tempi, si sentiva, per sua stessa ammissione, assai “più matura”. “Niente”, si era schermito lui, “ti volevo dire che sicuramente è destino”. Be’, quel giorno mia madre lo rispedì a casa con il “culo rotto e senza cerase”, come si dice, ma siccome era davvero destino, sono felice di dirvi che pochi giorni fa i miei genitori hanno festeggiato le Nozze di Diaspro (42 anni di matrimonio!). 


Ora che sapete questa cosa qua, apprezzerete ancor di più la cronaca di quel primo appuntamento improvvisato, anche perché, mi gioco cinquemila lire, è successo qualcosa di simile a molti di voi. 


Sono state le indimenticabili giostre di De Lorenzo, infatti, a far rompere definitivamente il ghiaccio alla “coppia del destino”. Per prima cosa, mamma e papà sono saliti sulle “machinedi”, cioè sull’autoscontro, che cinquant’anni fa era identico a quello portato in giro oggi dagli eredi di quello storico giostraio: uno dei pochi esempi di tecnologia e design resistenti allo scorrere del tempo e mai passati di moda. E su quelle macchinine bordate di gomma resistente, i miei si sono fatti venire le prime avvisaglie di dolore cervicale. Poi sono saliti sui dischi volanti, dove il babbo ha potuto vantarsi della sua meravigliosa mira vincendo un paio di giri. Infine, sui “calcinculo”, i seggiolini, quella strana giostra dall’aria pericolosissima in cui il tizio seduto dietro doveva spingere coi piedi quello seduto avanti per fargli prendere un pennacchio fissato a cinque metri di altezza e vincere altri due biglietti. 


Non essendoci altro da fare (a parte le prove di forza in cui bisognava tirare un pugno a un piccolo sacco da box appeso a un cabinato o tirare le corna dalla finta testa di un finto toro fino a farlo urlare di dolore, tutta roba per maschi meno magrolini di mio padre), mio padre e mia madre si sono comprati due grosse nuvole di zucchero filato e hanno cominciato, finalmente, a parlare dei propri sogni, passeggiando nella folla fittissima della fiera sotto le meravigliose luminarie di Micuccio Cuiuli.

Ai tempi miei, un quarto di secolo dopo, le cose non erano cambiate molto. Anche io, all’età dei miei cari, ho invitato qualche ragazzetta sull’autoscontro o sui dischi volanti. Con meno successo, ahimè (d’altronde non avevo la carta del compleanno e del destino da giocarmi). Però mi sono rotto le ossa pure io sull’autoscontro, anche grazie ai gettoni gratis che De Lorenzo distribuiva ai presenti quando c’era bisogno di popolare la pista in un momento di calma, e ho sparato gli invisibili raggi laser dai dischi volanti convinto che, davvero, quando vincevo era per merito mio e non il risultato di un calcolo elettronico causale, che oggi chiameremmo algoritmo, che faceva vincere tutti a turno. Condividendo, inoltre, la golosità di zia Maria, ricordo di aver speso una fortuna in mandorle perlate e piccoli biberon pieni di caramelline zuccherose di tutti i colori. Una volta, con un paio di amici, comprammo dei palloncini pieni d’elio a forma di animaletti Disney e tre “Ruote col manico”, per fare un po’ di scena (e magari la figura dei buffoni) e rumore attraverso la fiumana di persone. 


Ah, c’era un’altra cosa che mi piaceva molto, e che si poteva comprare, anche quella, soltanto una volta all’anno, nel giorno di San Michele: una specie di provola annodata e manipolata a forma di giraffa, mi sembra, o altri animali, che compravi e sgranocchiavi camminando tra gli altri venditori ambulanti o portavi a casa per accompagnarla con del pane e delle olive schiacciate. E mi piacevano anche i pesciolini rossi, nella boccia di vetro, e i pulcini e le paperelle. Oh, quelli mica li mangiavo, non pensate male. 


Zia Maria si ricorda che, ai suoi tempi, c’era la fiera degli animali: con i porcellini d’india, le caprette e altri animali meno domestici del mio pesciolino rosso (che, a proposito, moriva puntualmente dopo una o due settimane, poveraccio: da grande ho cominciato a capire che non era davvero bellissimo, come credevo da piccolo, intrappolare una creaturina vivente in una prigione di vetro piena d’acqua torbida). E ora ricordo anch’io che c’erano delle strane riffe, ancora quando ero molto giovane, quelle in cui si vinceva appunto una capra, strappando un biglietto dal mazzo e attendendo che il banditore facesse girare una grossa ruota della fortuna, oppure si lanciavano dei cerchi attorno alle bottiglie di spumante e, quella più strana di tutte, si davano delle martellate su lunghi chiodi cercando di infilarli per intero e con un colpo solo in un martoriato ceppo di legno. Tutt’intorno la gente esultante che tifava, applaudiva o fischiava il “muscoloso di turno”.


Sfogliando qualche foto d’epoca mi rendo conto, inoltre, di quanto questa festa fosse considerata importante da tutto il paese, una specie di evento nazionalpopolare annuale e atteso come il festival di Sanremo. Anche perché da Cinquefrondi, nelle ultime cento Feste di San Michele, mi dicono che di cantanti e personaggi famosi ne siano passati tantissimi. Andando a memoria, mi viene da citare qualche nome, ma la mia memoria non è così affidabile e potrei confondermi con gli eventi estivi. Totò Colloridi me ne nomina qualcuno, assicurandomi che sono molti di più: Mario Tessuto (quello che cantava 'Lisa dagliocchi blu'), Gli alunni del sole, I ricchi e poveri, Gianni Bella e Little Tony. Zia Maria mi suggerisce invece che ai suoi tempi era venuta a esibirsi Orietta Berti, e che aveva cantato sotto la pioggia protetta soltanto dall’ombrello di Micuccio Cuiuli. Chiedete un po’ in famiglia per le decine di altre star passate da qui e, se vi va, scriveteceli nei commenti. 


Fino a poco tempo fa, a ogni modo, durante il giorno di San Michele Cinquefrondi sembrava il centro del mondo. Ok, magari del mondo no, ma della Piana di Gioia Tauro sì: venivano da ogni dove per partecipare alla nostra festa. Ho amici sparsi ovunque che si ricordano i concerti, la folla, le luci, gli schiamazzi e persino la paura provata la prima volta che hanno visto da vicino il volto del demonio schiacciato da San Michele nella splendida statua che quest’anno ricominceremo a portare in processione. 


Mentre scrivo, mancano pochi giorni, e mia zia ha riempito già la ciotolina accanto alla tv. Io non ho messo i soldi da parte, ma spero di comprare anch’io la mia sedia (o la mia ciotolina o la mia provoletta a forma di giraffa). Chiederò alla mia fidanzata se se la sente di fare una passeggiata ufficiale o almeno, se ci saranno ancora, di salire con me sui dischi volanti. Mi guarderò intorno, forse, tornando bambino, cercando gli occhi dei “ferari” di una volta, lo sguardo micidiale di Mustafà che ci teneva d’occhio dai bordi dell’autoscontro o il flash di Marcello Roselli sempre in agguato a ricordarci che certe cose cambiano, è vero, perché il tempo passa, ma certe altre, invece, rimarranno ancora per un po’ uguali e sempre meravigliose. 


Commenti

  1. io tutte questo che tu racconti non l'ho vissuto e mi sono perso un pezzo di storia del mio caro paese perchè ho lasciato la mia terra nel primo dopoguerra

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  2. Bel racconto mi hai fatto commuovere perché ho vissuto tutti questi momenti assieme a mia madre che non c’è più purtroppo❤️

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  3. Questa del bravo Salvatore Tigani è davvero una spassosa conferma del suo talento. Egli ha fatto una bella passeggiata nell'appuntamento tradizionale di maggio a Cinquefrondi da sempre si festeggia San Michele, in deroga al calendario che lo festeggia il 29 settembre, assieme agli altri arcangeli Raffaele e Gabriele. San Michele è il protettore non soltanto del nostro paese, ma anche di farmacisti, radiologi, giudici, commercianti, doratori e schermidori e forse di qualche altra categoria che in questo momento mi sfugge. Premetto: scherzare con fanti (ed io l'ho fatto al servizio militare, ero in fanteria) e lasciare stare i santi, per me è legge. Ma Santu Micheli mi perdonerà questa trasgressione di oggi; la confesserò, lo giuro, e non a uno dei tanti padri indiani di stanza a Taurianova, al mini convento dei Cappuccini, quello vicino al camposanto di Redicina. Per via della mascherina, a quanto ha detto uno di loro dopo la mia confessione annuale che ho fatto a Pasqua, non c'ho capito nulla. Mi sono perso l'80% di quello che ha proferito, equamente distribuito cosi: 40% a causa della mia ipoacusia bilaterale e 40 % perché l'italiano di sua conoscenza usciva dalla mascherina in un'altra lingua. Ma io, dallo sguardo e dal gesto che il padre cappuccino ha fatto ho capito che mi aveva assolto e la confessione è durata solo 80 secondi cui si sono aggiunti 40 per la penitenza. E vengo alla trasgressione, espressa nel nostro dialetto: " Oh Santu Micheli meu, vui chi nd'aviti chimmu cumbattititi cuntra li diavuli e chi proteggiti a tanta genti, e lu trovastivu lu paisi, nd'agghjuttiti acitu e feli cu' nuatri cincrundisi !

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